lunedì 2 aprile 2018

Lettera di un amico

Caro Beppe,
riflettevo sul bel post in cui parlavi di due persone con problemi psichiatrici, abbandonate fraudolentemente dai familiari nell’Ospedale e di tutti quelli che malati cronici, con l’AIDS o semplicemente vecchi che non hanno più parenti che si occupino di loro e restano, a tempo indeterminato in letti così pochi e preziosi.
Mi è venuta voglia di condividere alcune considerazioni: quando uno studente arriva, alla fine di un lungo percorso, ad ottenere la Laurea in Medicina e Chirurgia, di solito, ha due obiettivi: uno primario, curare i malati al meglio ed uno conseguente: diventare bravo nel suo lavoro per soddisfare il primo; questo giovane medico cercherà di studiare, di confrontarsi con Medici più esperti , di scalare, insomma le “vette del sapere”. 
Vi è tuttavia un rischio implicito che questo cercare di migliorarsi, di eseguire interventi o diagnosi e terapie sempre più difficili, allontani l’attenzione dalla persona che diventa prima “l’ospite della malattia” poi la sola malattia o addirittura l’organo malato. 
La persona che dobbiamo curare è ormai sfuocata, è quasi l’appendice di un problema tecnico da risolvere e quindi ci auguriamo di ricevere qualche caso più stimolante e difficile.


Poi può anche subentrare una specie di noia, dopo centinaia di procedure dello stesso tipo non senti più l’adrenalina che ti spinge, non trovi un gradino in più nel tuo auto-soddisfacimento professionale. 
Se si arriva a questo, si ribaltato l’obiettivo iniziale, perché curi il malato per soddisfare il tuo IO. Se poi intervengono interessi economici, Dio ci guardi!
Ma sono proprio quei malati cronici, quegli psichiatrici, quei malati terminali che ti richiamano ad un esame di realtà; il fatto di non poterli curare efficacemente, di essere impotente come Medico, ti impone di considerarli come Persone, deboli, emarginate ma Persone degne di ogni diritto.
Il mutarsi della professione medica, tanto comune nel mondo ricco e tecnologico, trova un contraltare importante nelle situazioni come a Chaaria,( nelle storie che leggiamo ogni giorno sul blog) dove chi viene curato con grande bravura convive nella stessa stanza con il
vecchio incontinente o con la persona portatrice di devastanti piaghe da decubito. 
Chi ha avuto la fortuna ed il privilegio di lavorarci ne ha ricavato grandi insegnamenti e moniti, ha imparato cosa significa le parola “diseguaglianza, solidarietà, ma anche crudeltà o irriconoscenza, grande forza e coraggio”.
Questa lezione, che ti porti a casa, resterà fondamentale per consentirci di essere fedeli al nostro obiettivo primario.
Anche se le mie chiacchere parlano di medici, sono totalmente valide per tutto il personale sanitario, infermieri, fisioterapisti, ostetriche, biologi, ma temo che proprio i medici siano i più esposti alle “sirene tentatrici”.
PS: l’amico che mi ha scritto questa lettera ha chiesto di rimanere anonimo.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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