venerdì 26 gennaio 2018

Il gioco letale

Ho quattro anni e come tutte le bambine da grande vorrei fare la mamma.
La vedo sempre indaffarata in tutte le faccende di casa, e mi piacerebbe essere come lei.
Adesso che e’ impegnata a mungere la mucca e non mi puo’ sgridare, voglio fare il gioco della cucina.
Provo a cucinare e poi chiedo a mamma se le piace.
Questa roba qui non so cosa sia perche’ non so leggere, ma e’ oleosa e forse va bene come l’olio che mamma tiene nella credenza sotto chiave.
Chissa’ perche’ questo lo tiene vicino alla lampada a petrolio.
Poi trovo quella bottiglia che papa’ a volte si porta nei campi e dice che fa tanto bene ai raccolti perche’ impedisce agli insetti di distruggerli.
Se fa bene ai raccolti sara’ qualcosa che si mangia!
Mescolo un po’ le due cose e poi provo ad assaggiarle.
Il gusto faceva veramente schifo.
Un attimo dopo aver inghittito il mio intruglio, un fuoco tremendo ha cominciato a bruciarmi dentro, dalla bocca fino alla pancia.
Ho sentito tanto male ed ho gridato forte.
Ho ancora visto la mamma accorrere e mettersi a piangere dopo aver visto quello che avevo bevuto.
Non ricordo niente del trasporto in ospedale. Stavo troppo male!
So pero’ che mi hanno fatto tante cose. Tutti erano agitate e si affaccendavano attorno a me.
Mi hanno fatta vomitare con una procedura che si chiama lavanda gastrica, mi hanno dato delle medicine in vena, mi hanno attaccata all’ossigeno.


Di tanto in tanto mi aspiravano perche’ dicevano che avevo troppe secrezioni nei polmoni.
A volte stavo un po’ meglio e poi di nuovo peggioravo. I medici alternavano speranza e disperazione. La mia mamma piangeva e basta.
Il pediatra Paolo diceva alla mia mammina affranta che, se avessi bevuto solo la paraffina della lampada, la prognosi sarebbe stata migliore, ma il fatto che io abbia assunto anche anticriptogamici mi metteva ad alto rischio, perche’ sovente si arriva in ospedale troppo tardi.
I pesticidi sono veleni tremendi, diceva il medico.
La mamma ed i medici non mi hanno mai abbandonata dalla sera quando sono stata ricoverata fino al mattino seguente.
Dicevano che era un miracolo che avessi passato la notte.
Ma il Signore mi ha chiamata poche ore piu’ tardi.
Non c’e’ stato niente da fare per me.
Ho sicuramente sbagliato gli ingredienti del primo pasto da me cucinato.
Non so neppure che cosa voglia dire che una cosa e’ velenosa.
Io pensavo di cucinare come la mamma, ed ora l’ho lasciata sola a piangere per me, che sono andata in Paradiso per gioco…un gioco letale da cui non c’e’ ritorno.

PS: il bimbo nella foto era in reparto con me. Non sono io nella foto, e quella non e' la mia mamma.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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