sabato 24 giugno 2017

Le risposte di Dio

Questa mattina ero troppo stanco ed ho fatto fatica ad iniziare la giornata.
Questo sciopero mi sta un po' massacrando.
Poi, il primo intervento e' stato tremendo: rifrattura di femore, sotto una placca  messa in altro ospedale nel 2012.
Callo osseo duro come il cemento, posizione abnorme delle ossa, difficolta' a rimuovere la vecchia placca, riduzione dei frammenti
davvero complessa e difficoltosa prima di riuscire a posizionare una nuova placca.
Quattro ore di intervento che mi hanno debilitato e mi hanno risucchiato tutte le energie sin dal mattino.
Ero cosi' giu' di corda che avrei voluto lasciar perdere tutti i malati e scappare via. Non avevo piu' voglia di lottare con la fiumana di malati che anche oggi ci assaliva.



Poi la vita mi ha dato una delle sue risposte, una di quelle risposte che mi rimotivano e soprattutto mi fanno capire che non ho diritto di
lamentarmi perche' c'e' molta gente che sta peggio di me.
La risposta si chiamava Esther.
E’ arrivata in barella perche’ collassava ogni volta che tentava di mettersi in piedi. La sua fronte era imperlata di sudore freddo. Ho
misurato la pressione, ma non si e’ sentito nulla.
L’ho fatta portare in ambulatorio, e mentre la preparavamo per l’eco, ho notato una cicatrice sulla pancia: “Quanti hanni hai?”, “Diciannove”, ha risposto con voce flebile.
“Hai altri figli? Che tipo di intervento hai subito?”, “Non ho bambini… si e’ trattato di un intervento per gravidanza extrauterina”.
Non ho risposto, ed ho messo la mano sul suo addome. Era dolentissimo, e la donna saltava ad ogni mio tentativo di premere un po’. Mi sono quindi focalizzato sulle congiuntive: era davvero pallida. Ho provato a percuotere la pancia, ed ho sentito un gorgogliare di fluido che si stava muovendo.
Immaginavo gia’ di cosa si trattava ma ho deciso di trattenere le mie fantasie e di lasciar parlare la sonda ultrasonografica. Purtroppo la
diagnosi si e’ presentata immediatamente, ed e’ apparsa veramente spietata: era chiaro che si trattava di una nuova ectopica, nell’unica
tuba che era rimasta ad Esther.
La malata intanto peggiorava ed ora era quasi incosciente. Era chiaro che l’emorragia interna era massiva. Abbiamo quindi trasfuso in fretta
e furia una sacca di sangue e poi siamo entrati in sala con procedura di emergenza.
Mentre mi lavavo e mi preparavo all’intervento, continuavo a sperare di estrarre il prodotto del concepimento e di poter riparare la
salpinge.
Abbiamo operato sotto ketamina, perche’ la spinale avrebbe ulteriormente peggiorato l’ipotensione: e’ stata una anestesia
difficile, con la paziente che ha smesso di respirare due volte. Il sangue raccolto in cavita’ addominale era moltissimo, e facevamo
fatica ad aspirarlo. Il pavimento della sala era inondato, ed io non riuscivo a trovare la tuba a causa dei fiotti di sangue che emergevano
dalla breccia operatoria come da un idrante rotto.
Poi, quando finalmente sono riuscito a mettere una klemmer nel punto giusto, il torrente ematico si e’ arrestato di colpo. Jesse ha
continuato a infondere sangue, usando anche lo spremisacca per fare prima. Le condizioni generali pian piano si sono normalizzate, ed
abbiamo cosi’ potuto riflettere un momento. La tuba era letteralmente scoppiata insieme al sacco ovulare; tutto intorno alla ferita si
presentava necrotica. Abbiamo rimosso il prodotto di concepimento ormai morto da tempo, e poi abbiamo tentato di suturare quello che rimaneva della salpinge. Ma ogni volta che provavamo di cucire, il filo tagliava il tessuto “marcio” e causava una nuova emorragia.
Pressati anche da Jesse che ci chiedeva di chiudere in fretta a causa delle gravi condizioni della donna, siamo stati forzati verso l’inevitabile: abbiamo dovuto accettare la realta’. L’unica via di uscita era di asportare la salpinge, con la consapevolezza che avremmo
causato ad Esther, che e’ nullipara ed ha diciannove anni, una sterilita’ permanente che forse le potra’ causare un divorzio e quasi
certamente le precludera’ ogni possibilita’ di risposarsi.
Non abbiamo potuto chiederle il permesso, perche’ lei dormiva e forse sarebbe stata incosciente ancora molte ore dopo l’operazione a causa dell’ipotensione e dell’anemia.
“Che responsabilita’ davanti a Dio… eppure non posso mica rischiare di riparare una salpinge che poi le causera’ una nuova emorragia interna, quasi certamente mortale”.
Ho quindi deciso di relegare questi dubbi nel profondo del mio cuore, di affondare due klemmer nel legamento largo, di tagliare e poi
suturare. Ho controllato il campo operatorio e lavato abbondantemente con soluzione fisiologica. Non saguinava piu’. Abbiamo chiuso in fretta il peritoneo, prima che si mettesse a spingere e ci desse problemi con le anse intestinali.
Quando ho visto la donna dopo l’operazione, mi sembrava una bambina.
Era ancora addormentata, ed una nuova sacca di sangue scendeva stavolta lentamente. Ho pensato con un brivido al momento in cui le
dovro’ dire che non potra’ piu’ avere figli.
“Queste comunicazioni sono la parte peggiore del nostro lavoro”, ho confidato a Makena.
Poi, camminando verso la comunita’, con la speranza che mi abbiano lasciato qualcosa da mangiare, ho ripensato alla mia depressione del mattino. Non che il dolore provato poche ore fa sia passato del tutto, ma la storia di Esther mi ha aiutato a mettere ogni cosa nella
prospettiva piu’ corretta: ha senso lottare… ce l’ha sempre. Per Esther e’ stato importante che ci fossimo, prima che per lei fosse troppo tardi… e poi non devo fare la vittima. C’e’ tanta gente che sta molto peggio di me. Esther rischia di essere ripudiata, additata a vista come una donna sterile e quindi inutile, e questa condizione la bollera’ per sempre: che diritto ho io di lamentarmi?

Fr. Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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