lunedì 12 giugno 2017

Emergenze

Nuova chiamata notturna!
Il cicalino suona e mi dicono di correre, ma non chiamare altri perche’ non e’ un cesareo.
Do’ uno sguardo alla finestra e vedo l’orizzonte rosso fuoco: ne gioisco perche’ devono essere quasi le 6, l’ora in cui comunque mi sarei alzato per la preghiera.
Mi vesto in fretta e furia senza neppure lavarmi la faccia, e mi precipito in ospedale. D’istinto mi dirigo verso la sala parto, perche’ immagino che comunque la maternita’ sia nuovamente il punto nevralgico... ed infatti vedo Eunice tutta sudata che si affatica attorno alla testa di un neonato che non ne vuol sapere di “uscire”.
Metto i guanti e sostituisco l’infermiera in questa manovra difficile e colma di tensione: il bimbo ha la spalla superiore “inchiodata” dietro il pube della mamma.
Sono gia’ passati minuti preziosi.
Mi tremano le gambe e sudo come un cavallo, non perche’ faccia caldo, ma per la tensione estrema. Goccioloni mi calano negli occhi e me li fanno bruciare rabbiosamente, ma ho i guanti insanguinati e non mi posso asciugare... altri rivoli di sudorazione piovono da entrambi i miei gomiti.
Le gambe mi tremano e faccio fatica a stare in piedi.
Passano attimi lunghissimi...non so quanto tempo sia trascorso in realta’... a me e’ parsa un’eternita’!
Alla fine il feto viene partorito, ma e’ flaccido e cianotico. Non da’ segni di vita.


Le gambe continuano a tremarmi e le ginocchia sbattono l’una contro l’altra, mentre mi dirigo verso il lettino termico: tentiamo la rianimazione cardio-polnonare, ma non otteniamo nulla per vari minuti.
Poi il primo timido movimento toracico, quindi qualche respiro superficiale, ed infine pian piano piu' regolare.
Da ultimo sono arrivati i vagiti, all'inizio fiochi e poi sempre piu' vigorosi.
Questa mattina non ha vinto la morte.
Questo neonato aveva troppa voglia di vivere

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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