domenica 7 maggio 2017

Quadretto africano

Sono le 23 e piove a dirotto
In ospedale ricevo una coppia con un bambino grave.
L’età apparente è di circa 5 anni, ed è praticamente in coma.
Dopo una breve visita e gli esami del caso, pongo diagnosi di malaria cerebrale e prescrivo il ricovero.
Decidiamo che è la mamma a stare con il bambino in ospedale e la mandiamo (come di routine) a farsi una doccia e ad indossare la divisa dell’ospedale.
Il papà rimane seduto in corridoio con il bambino in braccio, aspettando che la moglie esca dal bagno.
Procediamo alla parte burocratica per l’apertura della cartella e per il ricovero.
Josphine chiede al papà la domanda più ovvia: “Come si chiama il bambino?”
Nessuno si aspettava l’espressione smarrita di quell’uomo e la sua risposta:
“Questo qua? Onestamente non ne sono sicuro...aspetta che la mamma esca dai servizi, e chiedilo a lei!”
Josphine lo guarda con espressione indignata e l’uomo si difende: “Ho tanti figli! Come faccio a ricordarmi il nome di tutti?”
Quando la consorte riappare ancora gocciolante dopo la doccia, lei e Josphine si scambiano in kimeru alcune battute piene di ilarità.
La donna mi guarda e mi dice: “il bambino si chiama Mwenda...mio marito è così...non farci caso”.


L’episodio mi ha fatto dapprima sorridere, ma poi mi ha caricato di una grande tristezza.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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