giovedì 13 aprile 2017

A mali estremi, estremi rimedi

Oggi ero così stanco che non riuscivo nemmeno a capire il kiswahili.
Avevo una valanga di pazienti con cui parlare e come al solito è arrivata all’improvviso un'urgenza.
Judith mi ha detto: “Abbiamo un problema”. “Ne abbiamo ogni minuto di problemi”, le ho risposto. “Sì, ma questo non so proprio come risolverlo. Ho una gravida con il feto in posizione podalica, il piedino è già completamente fuori. Lo si può anche vedere quando la mamma cammina”. La paziente rifiuta il cesareo perché dice che ha sempre partorito naturalmente.
Stavolta non sarà diverso.
“E perché non la fai partorire? Non è la prima volta che seguiamo un podalico!”. “La cervice non si dilata. Sono cinque centimetri da molte ore, ma Monicah non vuole sentire ragioni”.
Quando sono arrivato da lei niente da fare, era irremovibile. Le ho lasciato ancora qualche ora per continuare il travaglio. Il battito del bimbo sembrava buono. Passavano le ore ma ancora nulla. Monicah voleva aspettare suo marito. Le ho chiesto quando sarebbe arrivato.
“Domani verso le due del pomeriggio, da Mombasa”. “Cosa? È una pazzia. Non si può aspettare fino a domani”.



Il battito del feto ha cominciato a farsi irregolare, la cervice continuava a non dilatarsi. Sono passate ore, non sapevo cosa fare. Se avessi seguito la sua volontà sarei stato costretto a tirare fuori un feto morto stanotte. Ma non potevo nemmeno obbligarla. Forse non ha gli strumenti per capire. “A mali estremi, estremi rimedi”, ho sussurrato a Kathure, una delle infermiere. “Prendila sotto braccio, dalle i suoi vestiti e accompagnala oltre il cancello. Dille che non voglio i suoi soldi e che le restituisco anche la piccola caparra che mi ha pagato. Io mi dissocio da questo infanticidio inutile”. Kathure gliel’ha spiegato con voce pacata e determinata allo stesso tempo: “Se devi uccidere tuo figlio, fallo al di fuori di questo ospedale”.
Naturalmente non avevo alcuna intenzione di mandarla via davvero.
Volevo solo spaventarla.
Se anche questa tecnica fosse fallita, l’avrei richiamata dentro e le avrei fatto un'anestesia generale, anche senza il suo consenso. Era un rischio, ma ero disponibile a correrlo. Kathure l’ha portata fuori, lasciando ai guardiani il compito di controllarla e non lasciarla allontanare troppo. Dopo quasi un'ora e mezza ha deciso di rientrare. Ha accettato il cesareo. Quando ha dovuto firmare per il consenso ho notato che la sua firma altro non era che l’impronta digitale del suo pollice destro. Questo purtroppo spiega molte cose: i suoi limiti, i suoi pregiudizi.
Il cesareo è filato liscio. Monicah ha dato alla luce un bel maschietto quasi allo scoccare della mezzanotte.

Fr. Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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