mercoledì 29 marzo 2017

VIolenza tra fratelli

Abbiamo ricoverato Antony in una pozza di sangue.
Aveva una ferita sulla parte posteriore del collo, per fortuna abbastanza superficiale. L’abbiamo quindi suturata senza grossi problemi.
Purtroppo pero’ aveva anche una ferita disastrosa nella parte volare dell’avambraccio. Tutti i tendini flessori erano stati recisi, insieme a buona parte dei muscoli.
Jesse ha praticato un buon blocco anestetico all’ascella, ed abbiamo quindi potuto fare le nostre tenorrafie a paziente sveglio.
Pensiamo di aver fatto un buon lavoro e di aver trovato e ricostruito tutti i tendini.
Il fatto che Antony fosse un ragazzo di 15 anni appena, mi ha incuriosito un po’, perche’ mi sembrava troppo giovane per essere classificato come il solito avvinazzato che conclude una rissa qualunque con dei colpi di machete.
“Cosa e’ succeso?” gli ho chiesto, mentre suturavo la cute e mi sentivo ormai rilassato.
“E’ stato mio fratello piu’ piccolo”, mi ha risposto senza lasciar trapelare emozioni.
“Nella nostra capanna, noi ragazzi dormiamo per terra dopo aver predisposto delle stuoie. Dobbiamo dividerci lo spazio, che obiettivamente non e’ molto. Mio fratello piu’ giovane si e’ era preso gran parte dello spazio sulla stuoia, ed io mi sono arrabbiato e gli ho mollato un ceffone. Lui non ha reagito, ma si e’ alzato ed e’ andato via piangendo. Io quindi, ignaro delle sue intenzioni, mi sono girato sul fianco pronto a prendere sonno. Gli passera’ ed avra’ anche imparato la lezione, pensavo io. Lui pero’ e’ tornato con la panga ed ha scaricato su di me tutta la sua rabbia”.


“Preso a pangate da un altro bambino! E per giunta dal fratellino piu’ piccolo!” ho esclamato, quasi pensando a voce alta.

Antony viene da Katwene, un poverissimo villaggio ai confini tra il Tharaka ed il Cenral Imenti.
I vecchi volontari ricorderanno le nostre gite domenicali a Katwene per vedere i vulcani spenti e per distribuire doni ai bambini poveri... quanti anni sono passati da allora!
Non mi stupisce che a Kathwene i bambini dormano per terra, ne’ mi stupisce il fatto che la panga sia facilmente reperibile in ogni casa, dove e’ lo strumento agricolo per eccellenza.
Rimango comunque senza parole quando penso alla reazione di un bambino dell’eta’ di 13 anni, il quale pensa alla vendetta per un ceffone ricevuto, affidandosi nientemeno che alla panga: avrebbe potuto uccidere suo fratello, se il colpo inflitto al collo non fosse caduto di striscio; oppore lo avrebbe potuto rendere monco per tutta le vita, se il braccio fosse stato completamente amputato.
La panga e’ infatti un misto tra accetta e coltellaccio.
Serve un po’ per tutto: tagliare l’erba per le mucche o il legname per il fuoco della cucina; ma e’ usata anche per rigirare le zolle di terra prima di seminare o per eradicare le erbacce, proprio come se fosse una zappa.
Ne abbiamo una anche noi in macchina… non per difenderci dai malviventi, ma per scavare nel fango nel caso in cui ci dovessimo impantanare nella stagione delle piogge.
E’ anche usata nelle scuole primarie e secondarie durante le lezioni di “agricoltura”.
Purtroppo spesso e’ anche l’arma a portata di tutti, con cui si fanno danni estremi: e’ infatti pesante come un’ascia, tagliente come un pugnale… ed a buon prezzo quanto una bottiglia di birra.
In mano ad un ubriaco o ad un folle diventa un mezzo di distruzione che spesso lascia danni irreversibili.
Pensiamo solo a quello che la panga ha potuto fare in 100 giorni di pazzia durante il genocidio del Rwanda nel 1994.
Sono comunque convinto che Antony recuperera’ l’uso della mano e guarira’ completamente, almeno nel fisico.
La domanda che pero’ mi faccio sempre, dopo aver suturato un paziente “pangato” magari dal padre, o da un fratello oppure dal coniuge, e’ la seguente: “potranno mai riconciliarsi e perdonarsi vicendevolmente?”
“Potra’ mai una sposa abbandonarsi nuovamente all’amplesso amoroso di un marito che l’ha presa a machetate e magari le ha amputato un arto?”
Sono domande senza risposta, e con Bob Dylan ripeto a me stesso: “the answer is blowing in the wind”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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