giovedì 2 marzo 2017

Kaburu, un miracolo che sia vivo

Sono le 6.30 e sto guidando la preghiera nella nostra cappellina. Ho appena intonato il canto dell’inno quando si apre la porta della chiesa e vedo entrare uno dei watchmen della notte: ha con sé il pesante bastone, veste il lungo cappotto ed in mano ha il passamontagna che si e’ appena tolto prima di fare la genuflessione.
Non parla ma mi guarda fisso: il messaggio mi e’ chiaro. Lascio a Fr Domenic il compito di continuare con i salmi, mentre io seguo Paul ed esco: “Cosa e’ successo?” gli chiedo a bruciapelo.
“Hanno portato un uomo tagliato dappertutto, e sta sanguinando molto!”
Comprendo che anche oggi saltero’ la messa, ma so che il Signore e’ molto meno formale di noi e capisce quando non possiamo proprio fare diversamente. Arrivato all’outpatient mi trovo davanti una scena raccapricciante. 
Aveva proprio ragione Paul. Quel vecchio tutto sporco di terra e’ veramente fatto a fettine. Mi assale un forte senso di scoraggiamento: non so come toccarlo, non ho idea di eventuali fratture ossee. 
Per un momento il mio elettroencefalogramma resta piatto: mi passano davanti scene gia’ vissute, come quella di Kawira la sera di capodanno o come quella del vecchietto sbranato dai cani alcuni mesi fa. 


Cerco di concentrarmi e di dare un ordine logico alle mie azioni: dico alle infermiere di reperire una vena prima che l’uomo collassi e di infondere liquidi ad alta velocita’. 
Mando a chiamare Jesse per l’anestesia e Joel per i gruppi sanguigni e le prove crociate. Io
stesso chiamo Makena con il cercapersone e le dico di venire subito.
Dai parenti raccolgo una storia molto triste: Kaburu e’ vedovo e vive da solo in una baracca di legno nel mezzo del suo appezzamento di terra. La casa piu’ vicina dista piu’ di un chilometro.
Nel cuore della notte sono arrivati dei ladri, che poi hanno iniziato a colpirlo all’impazzata. Il vecchio non ricorda quanti fossero. Sa solo che infierivano con il machete, e continuavano a “tagliare” anche quando ormai era a terra privo di forze, seppure ancora cosciente.
Posso verificare la veridicita’ di queste affermazioni in quanto le lacerazioni da panga sono veramente sparse su tutta la persona, compresi i piedi... e’ come se un malvivente si fosse ancora girato prima di andarsene, ed avesse colpito per l’ultima volta l’uomo che giaceva supino con i piedi verso la porta.
Nessuno ha sentito le sue urla perche’ la capanna e’ isolata, e Kaburu ha dovuto strisciare attraverso il suo campo per oltre un chilometro, arrivando poi alla casa dei vicini, che quindi lo hanno portato qui in ospedale con un carretto trainato da una mucca.
Mentre ancora stavo ascoltando la storia, vengo chiamato dalle infermiere perche’ il paziente era in shock a causa della forte emorragia. 
Anche prima di avere il sangue pronto decido di infondere dell’emagel, che serve per tenere su la pressione per un po’ finche’ si e’ pronti con la trasfusione.
Meno male che il paziente risponde bene! Dopo 500 ml di quella soluzione, riprende a respirare normalmente e a parlare, addirittura prima che iniziassimo la trasfusione.
La sutura di tutte quelle ferite e’ stata lunghissima: ci ha occupati fino alle 12.30. E’ stato un bel lavoro di équipe in cui sia io che Makena continuavamo a cucire in parti diverse del corpo. 
Abbiamo prima lavorato a paziente supino, e poi lo abbiamo dovuto girare a pancia in giu’ per riparare le lacerazioni della schiena. Tendini, muscoli, fasce, cute... tutto pian piano ritornava al proprio posto. 
Ci sentivamo come dei sarti. Tutto avveniva sotto gli occhi vigili di Jesse che si occupava delle condizioni generali del malato.
Cammin facendo ci siamo resi conto che il povero sventurato aveva anche due fratture: una alla gamba sinistra e l’altra alla scapola destra. Abbiamo quindi richiesto la collaborazione di Martin. 
Il nostro fisioterapista come sempre e’ stato bravissimo, ed ha completato il nostro lavoro con dei gessi alquanto complessi, perché dovevano sia contenere le fratture che permettere l’apertura di finestre attraverso cui medicare le ferite.
Kaburu adesso e’ a letto, e sorride: non ha male perche’ gli facciamo antidolorifici. I suoi figli non fanno che ringraziarci perche’ lo abbiamo salvato... A me pero’ e’ rimasta una domanda: perche’ tanta cattiveria? Perche’ infierire cosi’ brutalmente su un anziano inerme?
Come facevao i ladri a sapere che lui viveva da solo in quella catapecchia isolata? Forse i banditi vengono dallo stesso villaggio, e magari sono anche suoi vicini: lui dice di non averli riconosciuti perche’ era buio.
Ora questa gente violenta e’ a piede libero, e potrebbe attaccare altre persone che vivono da sole. Questo pensiero un po’ mi turba ricordando a tanti amici che vivono in casette di legno sparse per la boscaglia: “dobbiamo solo pregare che Dio ci protegga tutti”, mi dice Makena mentre da’ l’ultimo punto di sutura. 
Io pero’ continuo a non capire perche’ l’uomo debba cosi’ spesso cercare la propria autorealizzazione nel far del male agli altri. Il mistero della malvagita’ umana mi turba e mi confonde: a distanza di duemila anni ancora e’ valido il detto romano: “homo homini lupus”, e noi spendiamo molto del nostro tempo a riparare i danni che i malvagi infliggono a gente innocente ed indifesa. Forse la riposta a questa domanda la trovero’ solo in Paradiso... per ora continuo ogni giorno con le mie battaglie, sperando di strappare alla morte quante più vite mi sia possibile.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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