venerdì 3 febbraio 2017

Che pena mi fanno le mamme

...quando devono far operare un loro figlioletto piccolino.
Può essere una derivazione per idrocefalo, o un’ernia congenita, oppure qualcosa di molto più serio come un’occlusione intestinale.
Per loro è lo stesso; non fanno molta differenza. Quello che sanno è che hanno bisogno di noi perchè il bimbo sta male, ma poi sono devastate dalla paura e dalla preoccupazione quando a loro chiediamo di lasciarci il loro bambino all’ingresso della sala.
Ovviamente le mamme non le lasciamo entrare, e, tra il momento cui cui riceviamo il piccolino e quello in cui lo facciamo dormire, passano dei minuti in cui il bimbo piange a sqarciagola, perchè vuole la mamma.
Noi chiediamo loro di tornare in reparto e di aspettare là, ma molte volte esse non riescono ad allontanarsi; ci guardano con occhi lucidi, pieni di un misto di disperazione e di speranza. 
Sono lì, disperate e insieme completamente abbandonate. Non tornano in camera e si siedono sul marciapiede antistante la sala: ci hanno consegnato il loro tesoro più prezioso, sanno che gli somministreremo dei farmaci per farlo dormire, che lo “taglieremo” e gli faremo male; sono certe che agIamo per il suo bene, ma il timore che qualcosa vada storto durante l’intervento, o che il piccolo non si svegli più dall’anestesia le tormenta per tutto il tempo in cui noi siamo dentro.


Quando poi azzardiamo a dire loro un’ora approssimativa per la fine dell’intervento, e magari il bimbo ci mette più tempo del previsto per svegliarsi, la loro angoscia si decuplica; pensieri di morte affollano la loro mente...e, quando finalmente rivedono il loro bambino uscire dalla sala, non sanno se mettersi a ridere o se scoppiare in un pianto a dirotto.
Povere mamme!
Mi fannno una tenerezza infinita quando mi portano i bambini per l’operazione e se li staccano dal seno per consegnarli alle mie cure; poi mi commuovono ancora di più quando a loro ridò il loro bambino sano e salvo dopo l’operazione!

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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