giovedì 29 dicembre 2016

E' viva per miracolo

Agnes è post-termine, cioè ha abbondantemente superato la data stimata del parto ed è ormai gravida da quasi 10 mesi senza segni di travaglio. 
L’ecografia ha indicato che ci sono segni di insufficienza placentare, per cui il feto potrebbe correre dei rischi se non si interviene subito.
Non è una primipara (ha cioè già partorito), per cui si pone l’indicazione per un cosiddetto parto medico: in pratica si tratta di usare un farmaco chiamato ossitocina per indurre le contrazioni dell’utero.
E’ in effetti una procedura sempre molto ansiogena per me in quanto gravata da alte percentuali di effetti collaterali anche gravi, oltre che di insuccessi.
Mettiamo la flebo e regoliamo le gocce con attenzione, incrementandole ad intervalli regolari in modo da provocare l’inizio ed il mantenimento di un dolore tale che sia sufficiente a far progredire il travaglio, ma senza causare danni al feto.
Si tratta di una operazione complessa, che ci impegna a fondo per molte ore: bisogna controllare il flusso dei liquidi, monitorare il battito cardiaco fetale e le condizioni della madre.
Per Agnes sembra che tutto proceda per il meglio: buone contrazioni, battito fetale sempre regolare, dilatazione della cervice soddisfacente.


Passo da lei più volte e le ripeto: “Dio ti è vicino e tutto è ok”.
Agnes partorisce senza complicazioni verso le ore 19: è esausta ma sorride alla vista del suo bambinone di 3.500 g. Non c’è una importante emorragia post-partum, e tutto sembra essersi risolto nel migliore dei modi e secondo le nostre aspettative.
Il problema inizia qualche minuto dopo, quando la paziente viene riaccompagnata a letto. Appena messe giù le gambe dalla barella, stramazza a terra in un bagno di sudore freddo. Non risponde quando la chiamiamo e pare incosciente. La assistiamo in quattro e la rimettiamo sul lettino da parto. Le solleviamo le gambe e le mettiamo dei liquidi in vena che scendano a go go.
In un attimo si riprende; sorride e non si rende conto di come mai, dopo essersi alzata per andare in camera, si trova ora sulla stessa barella da cui era partita. Le spieghiamo l’accaduto, e le diciamo che probabilmente questo incidente è stato causato semplicemente dalla stanchezza ed dal fatto di aver digiunato per molte ore. Le consigliamo quindi di mangiare qualcosa.
Non le permettiamo più di camminare e la portiamo in stanza con la lettiga. Verso le ore 22 però Agnes comincia ad essere molto agitata.
Dice di avere un fortissimo mal di pancia. Le guardo le congiuntive e la mucosa del labbro inferiore e mi paiono bianche come un pezzo di carta. So già di cosa si tratta, ma cerco di ricacciare l’idea nel subconscio. Le tocco la pancia che ora è gonfia come un pallone ed ha
assunto nuovamente le dimensioni che aveva prima del parto: la palpazione anche leggera del basso ventre provoca un urlo disperato che induce anche una sudorazione profusissima.
Raccolgo le energie e, vincendo la mia riluttanza, penso allo staff a disposizione. Pianifico per il gruppo e le prove crociate. Invio un sms a Jesse pregandolo di venire immediatamente.
“Dobbiamo trasfondere adesso, ed aprire questo addome il più velocemente possibile: deve essere una emorragia interna”.
La sala viene preparata in tempi record e operiamo con tanta ansia. Jesse è padrone della situazione, anche se mi dice che la pressione della donna sta scendendo a precipizio e che devo fare in fretta perché la paziente sta già perdendo i sensi.
Ancor prima di aprire il peritoneo, un sinistro colore bluastro della superficie mi suggerisce l’ineluttabile: “aspiratore subito!...
L’addome è pieno di sangue”.
Appena incisa la sottile membrana peritoneale veniamo invasi da un fiotto enorme di sangue scuro ormai in parte coagulato. Anche i nostri vestiti sono già imbrattati ed i nostri zoccoli di gomma sguazzano ora nel liquido che continua a colare, nonostante i nostri sforzi di aspirazione. 
Laviamo con acqua fisiologia e vediamo il disastro in tutta la sua crudezza: durante le contrazioni Agnes aveva rotto l’utero contraendone una violenta emorragia nel legamento largo. Altro che digiuno e stanchezza. 
Era collassata in sala parto perché già sanguinava! Ancora una volta mi sento frustrato. L’ossitocina ci ha traditi nuovamente, e questa volta in un travaglio che era andato per il meglio. Com’è difficile a volte scegliere: cesarizzare troppo certo è sbagliato, ma guarda che disastri può fare anche un parto pilotato.
Lavoriamo velocemente per trovare e chiudere tutti i vasi arteriosi sanguinanti. La breccia nella parete uterina è veramente grossa, ma la mano di Dio ci aiuta, e pian piano riusciamo a suturare e ricostruire l’organo, senza fare una isterectomia: sarebbe stato veramente un disastro per questa giovane donna che quasi sicuramente desidererà un terzo figlio.
Intanto le sacche di sangue iniziano ad avere il loro effetto benefico. La pressione si normalizza e Agnes riprende coscienza e forza. 
Mentre ancora le stiamo cucendo la cute, ci chiede del suo figlioletto; e noi le assicuriamo che è al sicuro in una incubatrice.
Poi aggiunge: “Ma perché sono in sala operatoria? Non avevo partorito normalmente?”.
“Adesso è un po’ complesso spiegarti: hai avuto qualche piccolo problemino e hai perso momentaneamente coscienza: abbiamo dovuto agire in fretta e senza chiederti il consenso perché sei andata ad un passo dalla porta di San Pietro, e noi ti abbiamo riacciuffata per i capelli. Ora però sei tornata indietro, e sei in piena forma per riprendere la tua missione di mamma”.
Mentre vado a letto sono ancora molto scosso: ma guarda che disastro ha fatto l’ossitocina, anche se data alle dosi giuste e nei tempi prestabiliti! Meno male che poi Agnes è stata male prima della dimissione: immagina cosa sarebbe successo se il sanguinamento si fosse manifestato magari dopo due o tre giorni, quando lei era già a casa. 
Non posso pensarci. Posso solo dire che davvero c’è sempre bisogno che Dio ci tenga una mano sulla testa, perché sbagliare è facilissimo, ed i nostri errori quasi sempre rischiano di essere fatali.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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