mercoledì 9 novembre 2016

Solitudine

Ho fatto nascere migliaia di bambini; li ho tenuti tra le mie braccia al primo vagito, li ho guardati negli occhi prima ancora del loro padre biologico; li ho consegnati alla mamma radiosa per il trofeo che riceveva da Dio dopo nove mesi di attesa spesso angosciante: le mamme mi hanno guardato con sorrisi sgargianti; qualcuna mi ha promesso di mettere il mio nome al loro bambino e di portarmelo a vedere man mano che cresceva.
Poi però tutte sono state dimesse; normalmente quasi nessuna è passata a salutarmi quando si portava il figlioletto a casa; normalmente non rivedo più le mie puerpere, se non in caso di complicazioni o di un altro cesareo in gravidanze successive. 
Ho fatto nascere migliaia di bambini, ma poi alla sera, nel buio della cappella dove spesso mi rifugio per un attimo prima della nanna, mi rendo conto che di bambini non ne ho affatto. Ne ho toccati tanti, ma tutti se ne sono andati.
Quando il loro piccolo è in coma per una malaria cerebrale, quando ci sono convulsioni ricorrenti che fanno temere per la vita, o quando si diagnostica un’anemia severa ma non c’è sangue in frigo, le madri della pediatria ti rincorrono e vogliono che tu visiti il loro bambino anche sette volte al giorno. 


Non hanno pudore a chiederti addirittura di donare il tuo stesso sangue, adducendo a scusa il fatto che il padre è lontano e quindi non può donare, mentre loro devono allattare o sono già incinte di un altro figlio. 
Poi questi piccoli pazienti migliorano; si mettono a correre ed a giocare in reparto e nei cortili dell’ospedale. Le mamme a questo punto non ti cercano più; le vedi ridere insieme alle altre e magari cantare e danzare; a loro non viene neppure in mente di passare a dirti grazie. Era tuo dovere fare ciò che potevi per il loro figlioletto. 
Per la lettera di dimissione poi, a loro basta un infermiere od un clinical officer... ed anche loro spariscono, portandosi il piccolino sulla schiena e lasciandoti nel cuore quel senso di solitudine che qui in Africa ben conosciamo. 
Passi ore ed ore in ambulatorio e sempre devi ascoltare i problemi ed i dolori degli altri, ma sovente arrivi a sera alle 23 e ti domandi quando mai qualcuno chiederà a te come stai e se hai qualche problema. 
Con i volontari si vivono giorni intensi, si condividono esperienze e si porta insieme il peso del lavoro. Normalmente è una fatica enorme conoscerci, accettarci e capirci nell’arco di tre settimane.. e quando il rapporto comincia a funzionare ed a diventare più fruttuoso, i volontari tornano in Italia e molti di loro non ti scriveranno mai più, neppure per dirti che l’aereo è arrivato bene a destinazione. 
Scherzando io dico sempre: “meno male che c’è la BBC!” Infatti, visto che pochissimi me lo scrivono, io ormai so che, se non ci sono notizie di disastri aerei, questo implica che i volontari sono arrivati a casa... senza la BBC non lo verrei quasi mai a sapere. Anche questo fa parte della nostra solitudine, una solitudine che dobbiamo accettare come prezzo della nostra missione. 
Indubbiamente la nostra è una vita intensa entusiasmante e stupenda; però è anche molto solitaria. 
Ecco perchè è estremamente importante che in comunità riusciamo a sostenerci ed a darci una mano a vicenda con l’ascolto, l’amicizia, la fraternità e la stima vicendevole. 

Fr Beppe Gaido 

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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