venerdì 11 novembre 2016

Mutilazioni genitali femminili

Prima guardavo fuori dalla finestra della mia stanza. Siamo in mezzo al nulla: solo campagne, alberi e arbusti che si susseguono sul terreno ondulato fino a perdersi all’orizzonte. Quattro case attorno alla missione, nient’altro. 
Questo è parte delle difficoltà di Chaaria, ma anche del suo fascino. Non ci sono molte possibilità di uscire, non ci sono città da andare a visitare per ricaricarsi e staccare un po’.
Ma questa ormai è la mia casa. Sono dentro alla vita della gente, sono uno di loro, sperimento le stesse solitudini, le stesse difficoltà di comunicazione e di spostamento. A volte anch'io mi sento abbandonato da tutti: gli amici magari per un po' non scrivono più, la gente si dimentica di chi è lontano. Essere in una cittadina come Meru per certi versi sarebbe più semplice, ma lì ci sono già tante altre associazioni umanitarie, saremmo meno significativi e obbligheremmo i poveri delle aree rurali a percorsi a piedi più lunghi.
Stavo meditando su questo quando il mio cercapersone si è messo a suonare all’impazzata. Mi sono precipitato in ospedale. All’ingresso c’era un rivolo di sangue che sembrava arrivare dalla sala d’attesa, dov’era concentrato un gruppo di donne che discuteva in maniera piuttosto accesa attorno a una barella con una ragazzina che avrà avuto sì e no 15 anni, tutta sanguinante. Era debolissima, e chiaramente anemica.


Era di turno Susan, che mi ha subito messo al corrente che si trattava di un caso di mutilazioni genitali femminili, quelle che nei loro rapporti le organizzazioni umanitarie abbreviano con l'acronimo FGM (Female Genital Mutilation). 
Non ne so molto perché sono illegali e comunque coperte da un gran segreto, sono parte della cultura tradizionale. Susan ha continuato a spiegarmi che di casi del genere ce ne sono tanti, ma spesso le ragazze non vengono portate in ospedale e possono anche morire a casa. “Oggi è stata la mamma a rompere con la tradizione e a portarcela, con il rischio di essere punita dal suo clan”. 
Le hanno amputato parte del clitoride. Alla base, un'arteria recisa continuava a sputare fuori sangue. La circoncisione è stata fatta cinque giorni fa, ma la tradizione ha reso quasi impossibile alla mamma agire prima, perché, dopo la pratica, la ragazza deve stare in isolamento per circa un mese prima di essere accolta nella comunità degli adulti.
Le cose da fare erano semplici: per prima cosa chiudere l’arteria, poi rimuovere il tessuto morto e ricostruirle la parte lesa rispettando quanto più possibile l’anatomia originale. Dopo qualche ora la ragazza ha ripreso vita, sembrava già un’altra. Credo che le abbiamo salvato
la vita. Chissà quali drammi psicologici si porterà dietro tutta la vita.
Ho incontrato la madre in corridoio e mi sono fatto raccontare qualcosa in più sulle mutilazioni genitali. Sono le donne anziane del villaggio a praticarle, con una lametta da barba che deve essere la mamma a fornire. Sono persone che non hanno alcuna conoscenza né di medicina né di igiene e profilassi. Non oso immaginare le complicazioni a cui vanno incontro quante bambine, senza essere portate in ospedale per non infrangere le regole del clan.
In base a qualche statistica, non proprio accuratissima, che ho tenuto in quasi dieci anni di attività nel campo della maternità, posso dire che ancora oggi circa il 40 per cento delle donne meru sono circoncise. Questa percentuale diventa poi del 100 per cento per le popolazioni del nord. Non si tratta però di una vera infibulazione come in altri Paesi dell’Africa. Qui la pratica più diffusa è quella della rimozione del clitoride e delle piccole labbra.
Devo ammettere che non riesco a capire le ragioni storiche che hanno portato a questa prassi. L’unica spiegazione che mi sono dato è che in una società maschilista si vuole impedire ogni tipo di piacere sessuale alla donna, che deve subire i rapporti con il marito solo ed esclusivamente per dargli dei figli. 
Per le donne locali però ci sono altri significati più profondi. Con la circoncisione le giovani vengono ufficialmente accolte nel mondo degli adulti, e sopportando il dolore lancinante di questa pratica officiata senza alcun tipo di anestesia, danno una forte prova di coraggio davanti a tutti.
Diventeranno donne dimostrando di poter sopportare una sofferenza atroce che precluderà loro per sempre ogni piacere sessuale. 
Questo le fa sentire orgogliose di se stesse. Il giorno dell’operazione vengono radunate tutte e ricoperte di attenzioni e regali: sono delle vere regine in quel momento, e questo fa dimenticare tutto, anche il dolore allucinante.
La circoncisione poi ha anche un significato educativo. 
Per un mese resteranno chiuse in una capanna, riceveranno il cibo solo dalle altre donne del clan e non potranno vedere nessun altro. Impareranno da loro le regole della vita adulta. 
Quindi è una sorta di autorizzazione al matrimonio, e insieme previene il rischio che le giovani vengano escluse dalla vita del villaggio. Per me, è solo una barbarie profondamente ingiusta. Devo sempre ricordare a me stesso che non sono qui per giudicare, ma per aiutare,
ma ci sono momenti in cui davvero vorrei urlare cosa penso.
La mia ragazzina per fortuna si è ripresa. Adesso sta dormendo, sembra non abbia male.

Fr Beppe


1 commento:

luciano ha detto...

Non è mia intenzione scusarmi nè consolarti nei momenti peggiori. Non mi piace scrivere.Ma devi sapere,(forse già lo sai)che hai tanti amici che pensano a te e a tutti voi quasi ogni giorno.Vi vogliamo bene e cerchiamo di far conoscere ad altri futuri amici la vostra meravigliosa realtà. Anche se non scriviamo. Forza.


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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