sabato 22 ottobre 2016

Monica e Kawira

Monica. Aveva questo nome stranamente occidentale la bimba di 9 anni che abbiamo ricoverato una settimana fa. 
Tratti vagamente somali, particolari per questa zona. Mi ha ricordato subito Stella. Era magrissima, le si potevano contare le ossa. La bocca era coperta di ulcere che non la facevano neanche mangiare e bere. Era molto disidratata. 
La mamma mi ha detto che aveva diarrea da tre mesi e che rimetteva tutto quello che cercava di deglutire. La sua pelle,
raggrinzita come quella di un'anziana, era una distesa di macchie scure. Era debolissima, teneva gli occhi semichiusi, reagiva appena agli stimoli.
I primi esami sono stati spietati: il test Hiv era positivo sia per lei che per la mamma. La donna mi ha detto di essere sola, il marito era morto già da due anni e prima di lui se n'era andata anche la seconda figlia. 
Nessuno conosceva la causa. Al dispensario le parlavano sempre e solo di malaria. Da allora aveva cercato di prendersi cura al meglio dell’unica figlia rimasta. Tre mesi fa il tracollo anche per lei. 
Alla fine ha deciso il viaggio della speranza a Chaaria, ma è stato troppo tardi per la piccola. Dal suo letto Monica ci guardava con occhio sempre più spento e senza lacrime. Non era neanche più in grado di sbattere le ciglia. La madre continuava a pregare in una lingua che non comprendevo.


Quando la bimba si è lasciata andare, la donna si è messa a gridare di disperazione e a rotolarsi sul pavimento. Ho cercato di calmarla, di rassicurarla: “Adesso tua figlia non soffrirà più”. “Dottore, tu non puoi sapere cosa di prova. Non puoi capirlo. Monica non ti è entrata nella pancia!”. 
Ho sentito come un pugno che mi penetrava lo stomaco.
Ma ha ragione: un dolore che ti passa per la pancia è solo tuo, nessun altro può sentirlo. Tutto il resto è altro da te, sta fuori.
Qualche ora più tardi è tornata per chiedermi se poteva iniziare la terapia per l’Aids. Le ho assicurato che l'avremmo fatta stare bene ancora per molti anni, e lei, con un cenno delicato della mano, mi ha indicato un’altra piccola creatura, più o meno coetanea della sua, seduta nel letto a fianco. 
Sorrideva, gli occhi un po' persi nel vuoto, sembrava volersi avvicinare a noi. L'ho chiamata e l'ho fatta sedere a fianco del corpicino senza vita di Monica. Mi fissava con un sorriso desideroso di affetto, intanto mi accarezzava.
Si chiama Kawira, ha 8 anni. Era arrivata che era già in coma e l’avevamo salvata, ma la malaria cerebrale l'ha segnata per sempre.
Kawira ha un ritardo mentale grave. Quando la sua famiglia se n'è accorta, l'ha abbandonata. È più di un mese che è con noi. Nessuno viene a trovarla, lei gironzola per l’ospedale in cerca di coccole.
L'abbiamo soprannominata affettuosamente “fantasmino”, sia per quel suo volteggiare leggero per le stanze sia per il suo sguardo un po’ assente ma sempre alla ricerca di una carezza.
Ho chiesto alla mamma di Monica dove l’avrebbe seppellita. “Non ho un pezzo di terra dove metterla. Alla morte di mio marito, i suoi fratelli si sono spartiti il nostro piccolo appezzamento di terreno.
Io sono stata costretta a tornare dalla mia vecchia madre.
Seppelliscila tu, qui, in ospedale, insieme agli altri bambini”.
Ho guardato ancora il corpicino senza vita di Monica e poi quello di Kawira, che era seduta accanto a me. Siete proprio due angioletti, uno già arrivato in Paradiso e l’altro qui in terra a prepararselo.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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