martedì 13 settembre 2016

Il "Santo" chinino

Salvargli la vita è stata una lotta impari.
A soli 15 giorni dalla nascita sembrava già al capolinea.
Le condizioni del piccolo erano estreme: era bianco come un fazzoletto, ma non era anemico. Non aveva la forza di succchiare al seno, ed aveva convulsioni continue e senza febbre.
La glicemia era a posto, ed abbiamo subito pensato ad una meningite.
Con cautela estrema abbiamo fatto la puntura lombare, ma il liquor era limpido e l'esame di laboratorio negativo.
L'auscultazione del torace per altro era veramente impressionante e dimostrava una polmonite bilaterale. Subito abbiamo quindi coperto il bimbo con del Rocefin, nella speranza di colpire sia i germi dell'apparato respiratorio, sia eventualmente una qualche forma di meningite che ci fosse sfuggita.
Abbiamo naturalmente eseguito il test della "goccia spessa" per la malaria, ma è risultato negativo.
Dietro le continue pressioni delle linee guida OMS e di quelle nazionali del Kenya, ci siamo quindi astenuti dal chinino, anche se la tentazione di prescriverlo comunque era fortissima.
Il bimbo è rimasto tra la vita e la morte per giorni, ed ogni mattina prestissimo scendevo in ospedale a chiedere allo staff della notte se il piccolo ci fosse ancora.


E' stato a lungo sotto ossigeno perchè respirava malissimo, e per nutrirlo con il latte che la madre si spremeva dal seno, abbiamo dovuto usare un sondino nasogastrico.
Le convulsioni erano comunque molto dure da domare anche con il fenobarbitone a dose piena, supportato da boli di valium per retto al bisogno... ed ogni volta che al bimbo veniva una crisi, alla mamma si spezzava il cuore.
Quest’ultima naturalmente sprofondava giorno dopo giorno nella depressione più cupa ed ormai sembrava prepararsi al peggio. Mi guardava con occhio implorante, ma io onestamente non sapevo più cosa dirle per consolarla.
Poi un giorno mi sono ricordato di aver ricevuto una piccola donazione di test IFAT (immunofluorescence assay test) per la malaria.
Nonostante la "goccia spessa" negativa, ho voluto provare questo nuovo esame che è in grado di dosare la presenza di anticorpi IgM contro il plasmodium falciparum: sono stato fulminato da quello che ho visto perchè l'IFAT è risultato fortemente positivo. Ho gioito nel vedere questo risultato che almeno ci dava una direzione da seguire.
Mi sono quindi affrettato ad aggiungere alla terapia in corso il chinino in vena, sempre più convinto che una malaria anche gravissima può presentarsi con "goccia spessa" negativa e con assenza di febbre (la cosiddetta malaria algida).
Alle 7.30 del terzo giorno di chinino endovena, mi sono trovato quella mamma dietro le spalle nel mio studio. Istintivamente mi sono irrigidito e l'ho guardata con tutta l'empatia di cui ero capace.
In effetti lei è scoppiata a piangere quasi subito, ma le sue parole non sono state quelle terribili che mi sarei aspettato.
Tra lacrime di gioia e commozione, mi ha semplicemente sussurrato ad un orecchio: "sta meglio... grazie... stamattina ha succhaito al seno".
Non avevamo sospeso nessuna terapia, anche perchè il sistema respiratorio del bambino è ancora affetto da ronchi e rantoli, ma il miracolo - ne sono convinto - lo ha fatto il chinino in vena.
Ora siamo in quinta giornata di terapia antimalarica ed in ottava di terapia antibiotica ed il bimbo sta decisamente meglio. Stiamo pensando di dimetterlo presto.
La madre naturalmente è al settimo cielo.
Ringraziamo davvero la Divina Provvidenza perchè ci ha aiutati a salvare la vita di questo bambino.
Anche riguardo a questo bimbo, mi ritorna in mente quello che a Londra ci diceva il Prof Bryceson: "se le condizioni cliniche sono gravi e ti portano a pensare alla malaria complicata, tu non devi mai negare al paziente il chinino in vena, anche se il test per il falciparum è negativo...ho visto tanta gente con test negativo morire comunque di malaria".
Per questo piccolino abbiamo però fatto la scelta giusta.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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