martedì 16 agosto 2016

Pericoli in chirurgia

… E’ il titolo di un libro che mi aveva regalato Enrico, e che spesso riguardo prima di avventurarmi in un intervento difficile.
Aver paura e’ sempre molto utile per un chirurgo tropicale. La chirurgia e’ un mistero. Normalmente in sala sai quando ci entri, ma non puoi mai renderti conto di quando e come ne verrai fuori.
In tarda serata e’ arrivata una donna con complicazioni durante un travaglio tentato a casa. Mi sento relativamente tranquillo, perche’ ormai per noi il cesareo e’ un’operazione di routine…
Faccio la spinale, che mi viene al primo colpo… e cio’ mi pare di buon auspicio.
Ma le cose non partono per il verso giusto.
La donna ha già subito un taglio cesareo anni prima, ed incontro molte aderenze. Quando cerco di liberare i vari piani anatomici, tutto sanguina ferocemente.
Procedendo con il lavoro, purtroppo le cose si complicano ulteriormente: anche l’utero ha infatti preso aderenza ai muscoli addominali, ed e’ un lavoraccio trovare una breccia da cui far uscire il bambino. E’ tutto così rigido, che pare marmo!


Sudo sempre piu’ profusamente, ed un assistente di sala deve continuamente ripulirmi la fronte, per evitare che io innaffi la ferita operatoria.
Ma anche l’estrazione del bimbo e’ drammatica. E’ in presentazione podalica; non è molto grosso, ma , dopo aver estratto gran parte del suo corpicino, la testa non vuol saperne di uscire… e’ inchiodata dalle aderenze che non permettono ai muscoli retti di dilatarsi.
La donna fortunatamente non ha problemi dal punto di vista anestesiologico, anche se io rimango sempre in allerta perchè di notte non sono solo l’operatore, ma anche l’anestesista.
Mi affanno e tiro, finche’, esausto, estraggo una femminuccia che pare non aver sofferto durante quegli attimi terribili in cui e’ rimasta come impiccata al corpo della madre.
Ma, come tutti sanno, non c’è limite al peggio … l’utero sanguina ovunque e non c’e’ verso di fermare l’emorragia. Ogni punto dato sembra aprire un nuovo zampillo.
Nonostante tutto la donna è tranquilla e parzialmente assopita.Meno male! Josphine segue il gocciolare della flebo ed i numeri rassicuranti che appaiono sul monitor.
Chi mi aiuta come secondo operatore è una volontaria, e ci conosciamo pochissimo dal punto di vista chirurgico perchè è appena arrivata.
Quando si e’ agitati poi le cose vanno anche peggio. L’assistente mette regolarmente le mani dove io vorrei infilare l’ago.
Non c’e’ tra noi quell’afflato che normalmente si crea con chi strumenta per me regolarmente, per cui in varie occasioni rischio di infilzarla e di regalarle qualche virus.
Fortunatamente però non succede!
La volontaria accenna una domanda che non mi aspettavo, e che va ad incrementare la mia ansia… se mai ce ne fosse stato bisogno: “e se non riuscissi proprio a fermare questo sanguinamento?”
“Meglio non pensarci! Cerchiamo piuttosto di finire questo cesareo perche’ fra un po’ termina anche l’effetto della spinale, e l’assistente della notte non puo’ indurre una generale da sola”.
Comunque le cose si appianano poco alla volta.
Pur con qualche singhiozzo, e con vari tira-molla sul dove e come dare questo o quel punto, arriviamo alla fine di questo brutto cesareo: la mamma non sanguina più e le sue condizioni sono discrete.
L’esperienza ci ha comunque segnati, anche se tutto e’ finito bene: se mai ce ne fosse stato bisogno, ci ha ricordato che non esiste mai un intervento troppo facile... perche’ tutto in sala puo’ complicare.
Il pensiero finale, su una situazione di frontiera e di continua emergenza come quella di Chaaria, e’ che sempre dobbiamo dare il meglio di noi stessi; ma, alla fin della fiera, ancora abbiamo bisogno della ininterrotta protezione della potente mano di Dio.

PS: Grazie di tutto; buon viaggio e buon ritorno in Italia a Simone, Martina, Valeria e Marco. Li vedete nella foto!!!

Fr Beppe

Nessun commento:


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


Guarda il video....